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Pnin e la derealizzazione 



La derealizzazione è un sintomo dissociativo che dà la sensazione, a colui che la vive, di non riconoscere la realtà. Sebbene la realtà e il mondo circostante sono come sempre, non hanno subito alcuna trasformazione, la persona all’improvviso li percepisce come estranei.

Colui che vive questa esperienza ha l’impressione di essere catapultato all’interno di un sogno, di un'altra dimensione, da cui osserva la propria vita come fosse un film. Egli si ritrova ad essere uno spettatore alienato dell’esistenza giacché gli eventi, sprovvisti di coloritura affettiva, sono percepiti come estranei. 

La derealizzazione spesso si accompagna alla depersonalizzazione la quale dà la sensazione di essere completamente estranei a se stessi. Entrambe queste esperienze producono un profondo e terrificante senso di distacco e di smarrimento.

Nabokov nel suo celebre romanzo “Pnin” ce ne dà un breve assaggio. 

“Si ritrovò in un giardino pubblico umido, verde e violaceo, del tipo protocollare e funereo, con una spiccata prevalenza di cupi rododendri, lucidi laurei, alberi ombrosi e prati rigorosamente rasati; e aveva appena svoltato in un viale di castagni e querce che secondo le sbrigative indicazioni dell’autista riconducevano alla stazione ferroviaria, quando quella sensazione strana, quel fremito di irrealtà, lo sopraffece completamente.

Dipendeva da qualche cosa che aveva mangiato? Quei sottaceti con il prosciutto? O era una malattia misteriosa che nessuno dei suoi medici aveva ancora individuato? Il mio amico se lo domandò, e me lo domando anch’io.

Non so se sia mai stato rilevato prima d’ora che una delle caratteristiche principali della vita è la separazione. Se non ci avvolge una pellicola di carne, moriamo. L’uomo esiste solo in quanto separato dal suo ambiente. Il cranio è un casco da astronauta. La morte spoliazione, la morte è comunione. Confondersi con il paesaggio può essere meraviglioso, ma significa la fine del tenero Io. La sensazione provata dal povero Pnin fu un che di molto simile a quella spoliazione, a quella comunione. Si sentiva permeabile e vulnerabile. Sudava. Era terrorizzato. Una panchina di pietra tra i lauri gli impedì di crollare sul marciapiede. Il suo malessere era forse una crisi cardiaca? Ne dubito.”





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Per Mencio usare il proprio animo, e cioè la facoltà propriamente umana di pensare ciò che si sente, significa inclinare spontaneamente la propria intenzionalità verso la parte più nobile della propria natura. “Gongduzi chiese: “Come si spiega che, pur essendo tutti ugualmente uomini, alcuni diventano persone di grande valore mentre altre divengono persone di poco conto?” Mencio rispose: “ Coloro che privilegiano quanto hanno di più importante ne sono accresciuti, mente coloro che privilegiano quanto hanno di meno importante ne risultano sminuiti”. “Ma come si spiega che, pur essendo tutti ugualmente uomini, alcuni privilegiano quanto hanno di più importante mentre altri privilegiano quanto hanno di meno importante?” “Gli organi di senso non hanno la facoltà di pensare e si lasciano fuorviare dalle cose esterne. Essendo semplici cose in contatto con altre cose, i sensi se ne lasciano inevitabilmente attrarre. L’organo che è il cuore/animo ha invece la facoltà di pensare. Se pensa potrà