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Huìkě e la Mente-Cuore


Nel contesto delle lingue dell’estremo oriente quando si parla di “Mente” ci si riferisce all'organo del pensiero, un po’ come il nostro naso è l’organo dell’olfatto, ma non solo. La mente è infatti quell'organo che si occupa dei pensieri, delle sensazioni, delle emozioni e dei sentimenti. Per essere più chiari dovremmo utilizzare il concetto di “Mente-Cuore” poiché tutto ciò che dinamicamente si muove all'interno dell’essere umano è Mente o più precisamente Mente-Cuore.

Ognuno di noi ha un attività psichica che è il risultato dell’aggregazione di cinque skandha, o costituenti della persona empirica (forma, sensazione, percezione, desiderio o impulso e coscienza), che momento dopo momento generano l’idea di vivere una realtà mentale solida. Questa realtà è pura illusione giacché niente è permanente e quindi sostanziale.

C’è un famoso episodio che coinvolge il primo patriarca cinese Bodhidharma e il suo allievo Huìkě che ci può meglio aiutare a comprendere la concezione estremo orientale della Mente-Cuore.

Un giorno Huìkě disperato si reca dal proprio maestro e gli chiede:

“Maestro può acquietare la mia mente? Perché nonostante i miei innumerevoli tentativi non sono capace di pacificarla. Essa è in continuo subbuglio, turbolenta e imprevedibile.”

Il maestro dinnanzi a questa richiesta risponde: “Certo! Portami qui la tua mente e io l’acquieterò.”

A seguito di questa affermazione Huìkě giunge improvvisamente all'illuminazione.

Com'è possibile che Huìkě abbia raggiunto così facilmente l’illuminazione?

Il racconto mostra come la mente è una nostra fantasia, un qualche cosa che non esiste, se non come il prodotto della costruzione di un concetto utile a definire e a catalogare un qualche cosa che non ha forma e sostanza, la nostra Mente-Cuore.

L’acquietamento della Mente-Cuore, e quindi la cosiddetta illuminazione, giunge quando si comprende che il mondo interiore non ha vera sostanza o forma ma è semplicemente il frutto di una serie di illusioni e miraggi. Sono le illusioni e i miraggi che creano i turbamenti e la sofferenza. Per non soffrire occorre distanziarsi, non nel senso di non accettarli o di non riconoscerli, ma di non attaccarsi bramosamente ad essi. Occorre non essere voraci e gelosi nei confronti dei nostri vissuti interiori giacché durano il tempo di uno schiocco di dita. Tutto ciò non vuol dire che non sono importanti, d'altronde sono quello che ci caratterizzano, ma che non sono ciò che veramente siamo, sono illusioni. Noi siamo il boato di un tuono e niente più.

Se si accetta questa ovvietà e se si lascia che le cose sono semplicemente ciò che sono, senza corrergli bramosamente appresso o cercare di cambiarle, ecco che la mente si acquieta, si dilata, fino a giungere all'eternità. Questo è l’insegnamento del giovane Huìkě.

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