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Spiritual bypass.

I ricercatori di “psicologia della meditazione” parlano spesso di “spiritual bypass”. Con questo termine si riferiscono a quelle persone che si nascondono dietro ad una pretesa “spiritualità” al fine di evitare la risoluzione di alcuni problemi fondamentali della propria esistenza. Le persone che attuano inconsapevolmente uno spiritual bypass sono quelle che hanno profonde carenze nei fatti più concreti della propria vita ma che, piuttosto che risolverli, si nascondono dietro a un alibi, l’alibi della spiritualità. Grazie a tale alibi essi ovviamente si mantengono distaccati dal mondo, ma questo distacco non è un vero e genuino distacco bensì un' opposizione, una resistenza ad esso. Per poter parlare di “rinuncia”, di “distacco”, occorre aver una qualche cosa a cui rinunciare, altrimenti si parla di “fuga”. 
Se non si mettono radici nella vita non si può parlare di un un' autentica spiritualità. Parafrasando Jung, si può infatti ribadire che per poter far si che il fiore sbocci più in alto possibile occorre che le sue radici siano profondamente immerse nella terra. Affinché il fiore del distacco e del non attaccamento possa un giorno sbocciare occorre che esso sia ben radicato a terra. 
Per poter cogliere il frutto è necessario attendere che esso sia maturo. Solo quando esso sarà maturo si distaccherà naturalmente e spontaneamente, dal ramo che lo ha sostenuto e nutrito. Il distacco in questo caso rappresenta il naturale coronamento di un processo esistenziale molto profondo. Ecco che, per la visione indiana dei quattro Ashrama, per giungere alla liberazione finale serve essere prima passati attraverso le precedenti tre fasi. Ognuna di esse richiede il soddisfacimento e il superamento di alcuni bisogni o motivazioni: Kama, il piacere dei sensi, Artha, il benessere economico e familiare, Dharma, lo sviluppo di una spiritualità e infine Moksha, la liberazione spirituale. Per poter giungere a questa ultima fase e beneficiarne appieno bisogna essere passati attraverso le motivazioni precedenti. Non vale saltare dalla prima all'ultima. Per il pensiero indiano antico non si può quindi parlare di rinuncia al mondo se si è un uomo di 50 anni che vive ancora con sua madre, che non ha una propria casa, che non ha una relazione d’amore, un figlio, un lavoro, ecc. Egli non può abbandonare tutto per vivere in un ashram, o divenire un saṃnyāsi, poiché egli non ha nulla a cui rinunciare e a cui distaccarsi. Come può egli andare oltre il suo “Io” se prima non è mai stato un “Io”. 
Prima di essere “nessuno” occorre essere stato “qualcuno”.

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Per Mencio usare il proprio animo, e cioè la facoltà propriamente umana di pensare ciò che si sente, significa inclinare spontaneamente la propria intenzionalità verso la parte più nobile della propria natura. “Gongduzi chiese: “Come si spiega che, pur essendo tutti ugualmente uomini, alcuni diventano persone di grande valore mentre altre divengono persone di poco conto?” Mencio rispose: “ Coloro che privilegiano quanto hanno di più importante ne sono accresciuti, mente coloro che privilegiano quanto hanno di meno importante ne risultano sminuiti”. “Ma come si spiega che, pur essendo tutti ugualmente uomini, alcuni privilegiano quanto hanno di più importante mentre altri privilegiano quanto hanno di meno importante?” “Gli organi di senso non hanno la facoltà di pensare e si lasciano fuorviare dalle cose esterne. Essendo semplici cose in contatto con altre cose, i sensi se ne lasciano inevitabilmente attrarre. L’organo che è il cuore/animo ha invece la facoltà di pensare. Se pensa potrà