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Noi lo chiamiamo Big Bang ma c'è chi lo chiama Prajāpati.


I veda sono un'antichissima raccolta di testi sacri appartenenti al popolo indoeuropeo degli Arii. Essi si dipanano su un lasso temporale che va dal 1500 a.C. fino al 500 a.C.
I primi veda sono raccolti nel Saṃithā ossia la prima stratificazione storica dei Veda che si dispiegano fino alle Upanishad. Quest'ultime sono anche chiamate Vedanta giacché la negazione “anta” indica la fine dei Veda per cui le Upanishad indicano la fine dei Veda.

Quando si legge il Saṃithā si ha l’impressione che gli inni e i riti da lui descritti siano rivolti ad un'unica grande divinità. Tale divinità alle volte fa capo alla figura di Mitra, alle volte a quella di Indra, alle volte ad Agni, ecc. Questo aspetto può far sorgere alcune domande.
Vi è una gerarchia divina che organizza i rapporti tra le divinità? Vi è una divinità che è ritenuta più importante rispetto alle altre? Oppure, ogni divinità ha il medesimo valore delle altre? E soprattutto, gli Dei da che cosa sono stati generati? Sono mortali o immortali? Esiste un principio?
Questa molteplice presenza divina potrebbe lasciar pensare ad una forma di politeismo anche se, in questo contesto, non è propriamente giusto parlare di politeismo. Per poter ammettere l’esistenza di una forma politeistica occorre infatti che, tra gli dei, vi sia un legame di tipo parentale. Suddetto aspetto è ben evidenziato dal pantheon greco-romano in cui i rapporti tra le divinità sono stabiliti in forza di un legame, non solo di sangue ma anche gerarchico che, ad esempio, si fonda sulla triade divina della fratellanza di Zeus, Ade e Poseidone. Questi Dei a loro volta si sono sposati e hanno dato vita ad una prole che a sua volta ha generato un'altra discendenza. Tale sistema divino ricalca, in qualche modo, l’organizzazione della società dell’epoca. Occorre inoltre non dimenticarsi che le divinità del pantheon greco e romano sono antropomorfe. 
Questo aspetto non è rintracciabile nei Deva (Dei) vedici giacché essi prendo le sembianze di fenomeni naturali. Ad esempio Mitra è identificato con il sole, Varuna con il cielo stellato, Agni con il fuoco, ecc. In questo caso le divinità del Saṃithā sono forze cosmiche, energie della natura e non Dei antropomorfi.
Il fatto che le divinità del Saṃithā non siano divinità antropomorfe ma una sorta di forze cosmiche e universali, lascia aperta un'interessante ipotesi. L’ipotesi a cui qui ci riferiamo concerne l’idea che, dietro ad una siffatta pluralità divina, vi sia in realtà un'arcaica forma di monismo. In uno degli inni del Saṃithā viene infatti detto che quello che viene chiamato con tanti nomi Indra, Varuna, Agni, ecc., fa capo in realtà ad un'unica manifestazione divina. Sembra perciò che le suddette manifestazioni divine siano in realtà differenti forme di un'unica sorgente divina, un Uno primordiale e senza forma. 
Un’ulteriore caratteristica del Saṃithā riguarda gli inni cosmogonici contenuti al suo interno che sono quei canti, quelle narrazioni, che raccontano la nascita dell’universo. Un interessante mito cosmogonico è quello del Gigante Primordiale dove il Gigante Primordiale è descritto come un'entità unica che è presente fin dalla notte dei tempi. Egli è colui che, smembrandosi, ha dato vita al molteplice manifesto. Il mito dello smembramento dell’Essere Primordiale è un leitmotiv caratteristico dei popoli agricoli che può essere infatti concepito come un modello narrativo, un archetipo che dà forma alle narrazioni. Esso viene rintracciato anche in altri racconti mitici come nel caso di Dioniso, in cui lo smembramento del suo corpo dà luogo al vino o in quello di Gesù che viene ucciso e sacrificato. 
Un altro importante mito cosmogonico conservato nei Veda è quello che narra della presenza di un Uno primordiale avvolto dalle tenebre che, sebbene sia simile al Mito del Gigante primordiale, non si riferisce ad una “forma” antropomorfa bensì a un Uno indistinto. E’ dalla trasformazione di una tale entità che emerge la realtà. La realtà in questo mito emerge come fosse “trasudata”. 

In questi miti ciò che è assente è il concetto di Creazionismo, manca cioè l’idea di un Dio esterno che crea il tutto. Essi narrano l’azione di un qualcosa di primordiale che ha fatto emergere, dalla propria sostanza, l’universo stesso.
Il Rigveda, ad esempio, contiene il mito di Prajāpati. Il mito di Prajāpati è una sorta di condensazione del mito dell'Uno e del Gigante Primordiale. Prajāpati è l’essere primordiale da cui zampilla l’intero universo. Il mito narra di un tempo in cui Prajāpati viveva solo nel nulla. In questo tempo egli cominciò però ad annoiarsi e a sentirsi solo per cui decise di raccogliersi in meditazione. Il suo ripiegamento in meditazione generò in lui un aumento di energia interiore e di calore, Tapas, che innescò la fuoriuscita dal suo corpo dell’Universo. Il mito racconta che l’universo venne spruzzato, spremuto fuori da Prajāpati come fosse sudore fuoriuscito dai pori della sua pelle.
Insieme all’universo vennero generati anche gli Dei i quali, a differenza del pantheon greco, sono mortali. Tuttavia Prajāpati alla fine di tale atto creativo, un po’ come accade dopo l’atto sessuale, si sentì spossato e privo di energia. Rischiò di morire e con lui di far morire l’universo intero poiché l’Universo è Prajāpati e Prajāpati è l’Universo. Ecco che gli Dei decisero di sacrificare parte della loro energia così da mantenere in vita Prajāpati. Il sacrificio venne attuato mediate il canto, mediante la parola sacra.

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Per Mencio usare il proprio animo, e cioè la facoltà propriamente umana di pensare ciò che si sente, significa inclinare spontaneamente la propria intenzionalità verso la parte più nobile della propria natura. “Gongduzi chiese: “Come si spiega che, pur essendo tutti ugualmente uomini, alcuni diventano persone di grande valore mentre altre divengono persone di poco conto?” Mencio rispose: “ Coloro che privilegiano quanto hanno di più importante ne sono accresciuti, mente coloro che privilegiano quanto hanno di meno importante ne risultano sminuiti”. “Ma come si spiega che, pur essendo tutti ugualmente uomini, alcuni privilegiano quanto hanno di più importante mentre altri privilegiano quanto hanno di meno importante?” “Gli organi di senso non hanno la facoltà di pensare e si lasciano fuorviare dalle cose esterne. Essendo semplici cose in contatto con altre cose, i sensi se ne lasciano inevitabilmente attrarre. L’organo che è il cuore/animo ha invece la facoltà di pensare. Se pensa potrà